Robot che operino come braccia dell’uomo e non viceversa, questo è l’obiettivo di Cecilia Laschi, professoressa all’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore di Sant’Anna di Pisa. Ricercatrice e pioniera nel campo della soft robotics, ha saputo rivoluzionare il suo campo di studi introducen do cedevolezza e malleabilità nelle strutture fredde e metalliche degli automi. Tra progetti passati e futuri in una ricerca senza sosta, ci parla di ciò che per lei vuol dire “fare soft robotics”.
Un robot non lo si associa alle donne. È il bambino che gioca con i robot dei fumetti e sogna di costruirne uno da grande. Com’è nata la sua passione per la robotica?
È nata un po’ per caso. Ho fatto un corso di laurea a Pisa in Scienze dell’Informazione dove la teoria faceva da padrone. Poi ho avuto la possibilità di svolgere la tesi di laurea in robotica e mi sono accorta che quella teoria che avevo studiato per anni diventava qualcosa di concreto, si muoveva nel mondo fisico. L’informatica e l’astrazione dei calcoli prendevano forma. È stato un colpo di fulmine.
Si può affermare che lei sia una pionera nel campo della soft robotics. Che cos’è il progetto Octopus?
Octopus è nato grazie a un grande progetto della Commisione Europea che ben si adattava alla sfida che ci eravamo preposti: capire come fa un polpo a muoversi, a generare forza, a nuotare senza parti rigide e provare a costruirne uno. In robotica non si era mai provato a costruire robot con materiali morbidi e il margine d’errore era molto elevato. Osservando il polpo, invece, abbiamo carpito quei principi che in seguito sono stati modellati matematicamente e applicati alla progettazione dei robot.
Cosa cambia nel momento in cui si utilizzano dei materiali morbidi per costruire robot invece dei soliti metalli?
La robotica è basata sulla descrizione matematica dei movimenti dei robot, sulla fisica dei corpi rigidi. I primi robot furono quelli utilizzati nell’industria, che dovevano avere una velocità e un’accuratezza incredibile. Nel momento in cui i materiali utilizzati non sono più duri, le leggi della fisica vanno rivoluzionate. Con l’uso di materiali cedevoli cambia tutto: l’elasticità permette ai robot non di svolgere compiti precisi, come nell’industria, ma di muoversi nel mondo reale, afferrare un oggetto, camminare, strisciare sotto una porta ed essere in grado di deformarsi passivamente grazie a sollecitazioni esterne.
Un grande passo avanti, dunque.
La grande rivoluzione è stata capire che la cedevolezza in robotica è fondamentale se si vogliono portare i robot fuori dal contesto industriale, a partire dall’ambito biomedico fino ad arrivare alle esplorazioni marine, e perchè no, anche utilizzandoli in situazioni di emergenza, per scavare sotto le macerie. Se un robot non torna può essere ricostruito…non si può dire lo stesso di un soccorritore.
L’immagine virtuale è quella del robot giapponese e invece al Sant’Anna siamo all’avanguardia, che impatto e che reazioni ha avuto a livello globale la robotica soft?
Diciamo che dopo una decina d’anni dalle prime sperimentazioni, la robotica soft ha avuto una grande diffusione sia a livello di ricerca che di programmi di finanziamento alla ricerca.
È considerata la frontiera per fare robot in diversi paesi, come in America, dove le università di Harvard e il Massachussets Institute of Technology rappresentano i principali competitor ma anche in Corea, Germania, Inghilterra, Giappone. Non ha ancora avuto un grande impatto sul mercato e per il momento ci sono solo piccole start up. Ma di tempo ce ne sarà, la ricerca nel settore è ancora molto giovane.
Il robot ha un genere, è maschile o femminile oppure si utilizza il neutro inglese “it” che però in italiano non abbiamo?
Per me è neutro, a meno che non ci siano particolari motivazioni per renderlo maschile o femminile. Per noi che li progettiamo, c’è ragione di pensare al genere quando interagisce strettamente con le persone, cioè quando si tratta di robot indossabili o di quelli per la riabilitazione motoria. Per gli esoscheletri, ad esempio, o si sceglie direttamente il genere o comunque si considerano le differenze tra uomo e donna. Dimensioni e forze cambiano, ovviamente. Mi limiterei a questa classificazione.
Sono tante le donne ricercatrici nel campo della robotica e della soft robotics? C’è un problema di genere nel campo della ricerca?
Di sicuro sono molte meno rispetto agli uomini. Mi sembra che nella società mondiale di robotica siano al 9%. Ma la robotica in sè deriva dall’ingegneria meccanica, dall’elettronica, è un campo tipicamente maschile. Invece un boom femminile si riscontra in bioingegneria e ingegneria biomedica. Da noi al Sant’Anna nei corsi di laurea si è superato anche il 50%. Il bio attrae le donne. Mi rendo conto però interagendo con colleghi di altri paesi che un problema di genere è ancora presente anche all’estero. L’Italia non è il paese messo peggio.
La biorobotica si ispira alla natura e ai principi che la regolano. Ricorda un episodio in cui, in fase di osservazione di qualche animale o qualche fenomeno naturale, le si sia accesa una lampadina e abbia esclamato “Eureka!” perchè era quello che stava aspettando per andare avanti nelle sue ricerche e sperimentazioni?
Di solito purtroppo la ricerca non è così poetica. Si tratta essenzialmente di misure e calcoli. Un’idea può venire spesso quando si osservano gli animali. Mi stupisco di tutto, vedo il granchiettino sullo scoglio che rimane aggrappatto quando arriva l’onda, non si sposta di un millimetro, è lì appoggiatto su quella puntina che ha alla fine della zampa e mi chiedo: “Ma come fa? Come faccio a fare un robot così?”. Rimane una teoria però, poi lo studio profondo ci porta a capire se saremmo in grado di trasformarla in pratica.
A cosa sta lavorando attualmente?
Un nuovo progetto che partirà a gennaio, coordinato dalla mia collega Barbara Mazzolai, che ha collaborato con me a Octopus, riguarderà le piante rampicanti, indagare e capire come la pianta analizza gli input sensoriali dell’ambiente esterno con un livello di intelligenza che non è legata all’avere un cervello.
Sono stata anche impegnata in una proposta per un programma di robotica enorme a livello europeo, un progetto flagship della Commissione Europea che riguarderà il progresso della robotica nei prossimi 10 anni. Ho dovuto ampliare i miei orizzonti e immaginarmi questo programma di ricerca che mette insieme più di 850 ricercatori da tutta Europa.
Dal punto di vista tecnico in questi 10 anni si proverà a cambiare e migliorare le tecniche, i materiali, aumentare l’intelligenza artificiale e portarla a funzionare meglio nel mondo reale, salvaguardando anche l’ambiente e tentando di creare robot biodegradabili. A quel punto bisognerà affrontare anche problemi di tipo sociale ed economico. Si teme che i robot possano rubare posti lavoro, ma in realtà non possono farlo: non ce ne sono! Io vorrei che lo facessero, invece. Ci sono tantissimi lavori pesanti fatti dall’uomo che potrebbero benissimo essere svolti dai robot, mentre i lavori di cervello li lasciamo fare ai computer. Mi sembra assurdo. L’uomo diventa il braccio del computer, invece io vorrei dei robot come braccia del cervello umano. L’esatto opposto insomma, invertire questa tendenza.
Negli ultimi tempi, fra dibattiti e polemiche, le innovazioni robotiche hanno anche riguardato l’ambito dei sex toys, con l’avvento di umanoidi sempre più simili a donne reali. Da ricercatrice, crede che anche queste tipologie di sperimentazione possano essere fatte “in nome della scienza”?
Un ricercatore alla fine sceglie a cosa lavorare, ma qui si tratta semplicemente di applicazioni che non hanno nulla di scientifico. Sembra che in Giappone ci sia già un mercato in questo senso. Ci si chiede sempre quale sarà la killer application nella robotica non industriale, potrebbe essere che alla fine esploda davvero questo come mercato.
Cecilia Laschi parteciperò al Talk ideato e diretto da Serena Dandini “DACCI OGGI IL NOSTRO FARE QUOTIDIANO”: LE CRE-ATTIVE insieme aSuad Amiry, Liza Donnelly, Amalia Ercoli Finzi, Cecilia Laschi, Angela Staude Terzani.
21 SETTEMBRE – ORE 20.15
TEATRO LA PERGOLA
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
La scuola di Linguaggi Fenysia
si trova a Firenze in via de’Pucci, 4